“Where IT’s headed” è una rubrica del Cegeka Magazine in cui dirigenti C-Level, managers e decision makers vengono invitati a condividere la loro visione sul futuro dell’IT nel contesto delle aziende italiane. Ogni numero include un’intervista ad un esperto/imprenditore/professionista di alto profilo che ci aiuterà ad approfondire e comprendere alcuni aspetti specifici della digitalizzazione.
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Il mondo e le nostre interazioni con esso assumono una forma sempre più impalpabile, sempre meno fisica ma non per questo meno intensa e significativa. E non c’è bisogno di parlare di metaverso o realtà virtuale per rendersene conto, basta mettere una mano in tasca e tirar fuori lo smartphone, il dispositivo che più di ogni altro si è frapposto tra noi e la nostra esperienza col mondo.
Ma in che misura questa dematerializzazione sta influendo sui processi di business delle aziende? E in che modo sta rivoluzionando i progetti IT? Ne abbiamo parlato con Cristian Cassanelli, Business Unit Manager di Cegeka.
“Nell’IT la dematerializzazione è evidente – spiega Cassanelli – in particolare nell’ambito dei servizi basati sul cloud dove questo shift ha avuto impatti sostanziali, agendo soprattutto sull’asse del tempo. Perché l’aspettativa è che l’approccio alle applicazioni e all’infrastruttura abbia un time-to-market sempre più veloce rispetto ai paradigmi di realizzazione precedenti che prevedevano anni, spesso quinquenni di progettazione, implementazione, test ecc.
Di conseguenza, anche metodologie come l’Agile non rientrano più nel campo delle novità ma degli standard che le aziende si aspettano di poter applicare tramite chi fornisce servizi.
Questo cambia anche il modo in cui la società che vende servizi IT deve porsi rispetto al mercato. Non più offrendo semplicemente una conoscenza specifica di prodotto ma portando una conoscenza fluida, trasversale rispetto a prodotti e tecnologie. Questo perché nel cloud esiste una miscela molto più composita rispetto a quanto accade per l’on-premise che impone scelte decisamente più vincolanti e meno flessibili, laddove il cloud invece apre ad un universo pressoché infinito di scelte.”
Qual è la visione del tuo team?
“La nostra visione è quella di abilitare questo nuovo approccio attraverso la migliore piattaforma cloud che per noi rappresenta il gate verso nuovi modelli di business più flessibili ed efficienti. La fluidità di competenza che il mercato richiede è proprio quella di riuscire a disaccoppiare da una parte quello che è il livello tecnologico, quindi la porta verso il cloud e le applicazioni che stanno nel cloud, e dall’altra parte la consulenza che deve saper guardare alle esigenze del cliente consigliando un percorso che sia il più possibile vicino alle sue necessità e generare quindi valore. Non può più bastare essere esperti di prodotto, le aziende hanno bisogno di soluzioni. Provo a sintetizzare in un esempio. Supponiamo che un cliente di un settore che non conosciamo bene ci chieda di aiutarlo a rendere più efficienti i suoi processi. La nostra capacità, pur non essendo esperti di quel settore specifico, è quella di sapere che dove c’è una macchina, dove c’è un impianto produttivo l’IoT può essere d’aiuto. L’IoT è molto semplice di per sé da implementare, la parte difficile è quella di sapere che cosa fare con i dati. Qui intervengono i data scientist e l’intelligenza artificiale che eleva le possibilità di determinare il proprio successo tramite il dato.
L’evoluzione verso una reale consulenza digitale è quello su cui puntiamo, ci permette di aiutare i nostri clienti nello sfruttare pienamente le opportunità offerte dal cloud diminuendo le righe codice. Perché tutte le volte che impiego meno tempo a scrivere codice ma configuro e implemento una soluzione già pronta diminuisco drasticamente il time-to-market”.
Come possono le aziende sfruttare a pieno le potenzialità del cloud per risolvere concretamente le sfide del prossimo futuro?
“La sfida dell’IT manager è quella di trovare dei partner che gli permettano di rispondere alle richieste del proprio business in tempi sempre più brevi. Inoltre, è ormai chiaro che lo smart working sia una realtà de facto che libera i modelli di business e la vita delle persone, aprendo tutta una serie di considerazioni importanti. Il lavoro da remoto libera i modelli di business perché permette di ridurre i costi legati alle persone fisicamente in ufficio, crea efficienza nelle loro vite e quindi maggiore soddisfazione. La necessità di essere smart e la necessità di farlo in sicurezza mette però di fronte a dei rischi di cyber sicurezza eccessivi da contenere da parte di una singola azienda.
Ecco che il cloud diventa un facilitatore: il passaggio da infrastrutture on-premise a quelle online consente di demandare al cloud provider l’onere di tenere aggiornati i sistemi rispetto ai rischi di Cyber Security. Gli ultimi due anni ci hanno insegnato a ridurre anche i costi e a passare da un modello storicamente CAPEX, dove si compra il software/l’hardware e lo si mette ad ammortare a bilancio, ad un modello OPEX dove pago per quello che consumo e fin tanto che ne ho la necessità. Quindi in questo senso anche gli IT manager sono di fronte ad una sfida, perché il business è sempre più pressante dal punto di vista dei tempi di risposta e solo il SaaS (Software-as-a-Service) può garantire tempistiche adeguate.
Inoltre, un’altra importantissima sfida da vincere riguarda la sostenibilità. L’operato delle aziende non è più misurabile dal punto di vista meramente economico, ma assume connotati di carattere ecologico. Le imprese infatti si devono assumere la responsabilità di alimentare un business sostenibile dal punto di vista sociale e ambientale. Il mondo si è reso conto che il nostro pianeta ha necessità di un’inversione di marcia rispetto al consumo di materie prime ed energia non rinnovabili, e così il mercato misura la bontà delle imprese in termini di sostenibilità sociale e ambientale. Verosimilmente, i bilanci aziendali che fino ad oggi sono stati ad appannaggio della sola componente economica e finanziaria, saranno arricchiti di indici in grado di determinare l’impatto sociale e ambientale delle imprese. Ma non è tutto, tra le giovani generazioni alla ricerca di un posto di lavoro, ci sarà sempre una maggiore attenzione a questi indici di sostenibilità, per cui per assicurarsi i talenti le aziende dovranno dimostrare non solo al mercato ma anche ai candidati il proprio impegno rispetto alla società e all’ambiente."
Se caliamo tutto nella specifica realtà italiana, ci sono ancora delle sfide a livello culturale e organizzativo che fanno da ostacolo all’adozione di nuovi modelli?
“Sfide culturali sì, anche se la diffidenza verso il cloud è abbastanza superata, cose come ‘il cloud non è sicuro’ sono ormai concetti passati. Spiegare che è meglio mettere i soldi in banca piuttosto che sotto al materasso è un discorso che non facciamo più, le aziende hanno superato questo discorso. Rimane una difficoltà riguardo a come stimare i costi di consumo, ma questo dipende molto dalla dimensione dell’azienda. Poi non tutte le aziende hanno un dipartimento IT o un IT manager, ma la gestione dell’IT è fondamentale e imprescindibile. Ecco l’importanza del ruolo dei Managed Service Provider, il fatto che un’azienda di 100 o anche 50 persone possa avvalersi di un rapporto di fiducia professionale, di outsourcing del dipartimento IT è qualcosa che è entrato a far parte della cultura. Quindi l’imprenditore deve mettere a budget mensilmente un costo IT che si sposta sempre più sul servizio e non più sull’acquisto di un software. Però c’è bisogno di fare management, avere visione e supporto sull’evoluzione della tecnologia perché altrimenti non riesci a starci dietro, ed è qui che il partner con cui lavori diventa cruciale.”
Quanto sono consapevoli le aziende, secondo te, degli aspetti strategici della tecnologia?
“Mettiamola così, le crisi costringono i mercati a rigenerarsi, e questo accade ciclicamente. È un costante sistema di crisi su diverse dimensioni che impattano quotidianamente e in modo diverso il business delle aziende. È una costante instabilità che fa evolvere le imprese. L’imprenditore vede le aziende che non hanno strategia, che non hanno la forza, la volontà di cambiarsi, la capacità di capire che serve un cambiamento, le vede crollare intorno a sé e per spirito di sopravvivenza inizierà a fare quello che gli altri non hanno fatto, questa è l’evoluzione a cui mi riferisco. A meno di pensare a scenari apocalittici, non avremo più server in casa. Quindi non esisterà più il concetto di server in senso fisico, cresceranno generazioni di persone che non avranno mai visto un server. Io ne ho costruito uno, l’ho imparato a scuola, li ho implementati, li ho visti virtualizzarsi, li ho visti sparire e non ne vedo uno da qualche semestre. Mia figlia non ha mai visto un server. Questo ineluttabile passaggio dal CAPEX all’OPEX passa anche da qui. Non abbiamo più il CD, non abbiamo più il server, tutto l’ecosistema IT si sta dematerializzando, come dicevamo all’inizio.”
Esiste una ricetta, un giusto mix di strumenti, soluzioni e strategie che le aziende possono adottare per essere competitive domani?
"Se esistesse una ricetta di assoluta efficacia, sarebbe segreta quanto la formula della Coca-Cola e se la conoscessi non la svelerei (ride). Quel che è certo è che la storia recente insegna che una strategia di business, nel momento in cui viene concepita, non può prescindere dalla componente digitale. Il successo delle imprese passa sempre più dall’esperienza del cliente rispetto ai servizi erogati, anche quando si vendono prodotti, gli utenti ricercano uno standard di accesso sicuro ad informazioni digitali. Gli utenti vogliono poter comunicare con l’azienda in modo semplice su ogni canale a disposizione, da quelli che prevedono un contatto umano nel POS o tramite un centralino, a quelli digitali tramite web e app, form e bot. Anche gli utenti interni all’azienda si aspettano un’esperienza digitale dal proprio workplace, perché sanno che la l’efficienza e la produttività per la quale sono misurati è tanto più possibile quando i processi aziendali e gli strumenti consentano una collaborazione efficace. Per cui un marchio, un prodotto, e persino l’identità stessa dell’impresa, passano necessariamente dal livello di digitalizzazione che, sia all’interno che all’esterno, viene effettivamente offerta.
Il cloud è il presente. Molti vedono nel Quantum Computing il futuro, tu che opinione hai a riguardo?
L’uno non esclude l’altro, anzi… sembrano nati per stare insieme! Il quantum computing è una tecnologia costosa, sia in termini di CAPEC che OPEX, e le necessità di utilizzo possono essere condivise proprio nell’ottica dei servizi cloud, solo per il tempo di reale utilizzo. Proprio l’esistenza del cloud consentirà l’accesso “democratico” a questa nuova risorsa tecnologica, altrimenti ad appannaggio di pochi soggetti. Un po' come internet che ha consentito lo sviluppo del cloud, così il cloud consentirà l’accesso al quantum computing.
Cosa c’è dopo, oltre il cloud?
“Naturalmente non posso dirlo con certezza ma un’idea sul cosa verrà dopo me la sono fatta. Il cloud non risiederà più sulla terra. Finché esisterà ancora il cloud passeremo in una fase in cui i data center saranno nello spazio. Perché nello spazio il sistema può essere autosufficiente una volta lanciato in orbita, si autoalimenta con il sole, comunica con la terra e con le popolazioni che vivranno nello spazio… quindi il prossimo stadio è questo: lo spazio. Questo scenario ha anche il vantaggio di generare maggiore sostenibilità per il sistema terra, diminuendo il fabbisogno energetico e di spazi dedicati ai datacenter. Una volta che ci saremo liberati della fisicità del hardware, sarà sempre più determinante la modalità di negoziazione della memoria per l’archiviazione delle informazioni. Abbiamo negoziato il prezzo di oro, acciaio, quindi abbiamo iniziato a compra-vendere titoli, obbligazioni, criptovalute e tra un po’ inizierà ad essere pesato anche lo spazio di archiviazione. Quanto costa l’archiviazione al KB lo stabilirà un mercato e pagheremo una bolletta a consumo dello spazio che utilizziamo, sia per transare che per archiviare. L’informazione sarà la moneta del futuro prossimo. Questo sottende al concetto di valorizzazione dell’informazione stessa. Quindi, chi possiede alla fine l’informazione che è stata archiviata? Quanto vale quel titolo di accesso all’informazione? Questa non è fantascienza ma l’evoluzione che stiamo vivendo, e la vera difficoltà sta nel far accettare questi nuovi paradigmi a generazioni eterogenee che convivono in questo periodo storico. La durata media della vita si allunga, per cui oggi convivono generazioni molto distanti tra loro: ci sono persone che sono nate e cresciute prima del calcolatore, altre che hanno visto nascere il PC in gioventù, quelli che a 10 anni masterizzavano i CD e quelli che non hanno mai visto una chiavetta USB”.